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L’economia comportamentale in ambito HR: cos’è e come può migliorare le decisioni organizzative

In un contesto organizzativo sempre più complesso, comprendere cosa guida realmente i comportamenti delle persone è diventato essenziale per chi si occupa di risorse umane.

L’economia comportamentale, con il suo approccio multidisciplinare, offre strumenti preziosi per progettare ambienti di lavoro più efficaci, inclusivi e orientati al benessere.

Ma di cosa si tratta esattamente?

L’economia comportamentale: definizione e ambito di studio

Quando parliamo di economia comportamentale (behavioural economics), ci riferiamo ad una disciplina che integra economia, psicologia cognitiva, sociale e neuroscienze per comprendere i meccanismi alla base delle nostre decisioni.

A differenza della teoria economica tradizionale, che postula l’esistenza di agenti pienamente razionali (homo economicus), l’economia comportamentale riconosce invece che le nostre scelte quotidiane sono spesso influenzate da fattori psicologici, emozioni e bias cognitivi.

In altre parole, la behavioural economics utilizza strumenti provenienti dalle diverse discipline che la alimentano per spiegare come i meccanismi sottesi ai nostri processi decisionali non possiedano basi esclusivamente razionali, ma seguono piuttosto scorciatoie mentali (euristiche), facendoci spesso cadere in errori sistematici di giudizio (bias).

Saper riconoscere questi bias è il primo passo per distaccarsene e poter prendere decisioni più consapevoli.

La nascita dell’economia comportamentale

Dal punto di vista storico, l’economia comportamentale affonda le sue radici negli anni ’50 del secolo scorso, quando il politologo ed economista statunitense Herbert Simon introdusse la nozione di razionalità limitata, contestando l’idea dell’esistenza di un attore perfettamente razionale.

In seguito, negli anni ’70 gli psicologi cognitivi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky dimostrarono con esperimenti che gli individui ricorrono a scorciatoie mentali (heuristics) che producono errori sistematici di giudizio.

Dagli anni ’80 in poi l’economista americano Richard H. Thaler integrò questi risultati nella teoria economica, spiegando anomalie nei mercati e nei comportamenti di consumo e contribuendo a consolidare un nuovo campo di ricerca che fonde economia, psicologia e neuroscienze.

Economia comportamentale e HR: i vantaggi per la gestione delle risorse umane

L’utilizzo dell’economia comportamentale in ambito HR rappresenta un tema ancora poco frequentato dalla letteratura organizzativa. Tuttavia, alcuni studi sottolineano come tale applicazione possa offrire molteplici benefici concreti. Come è evidente, infatti, approfondire i fondamenti su cui si basa il nostro comportamento può fornire ai professionisti HR una più che valida cassetta degli attrezzi per comprendere e prevedere al meglio gli effettivi principi che guidano le scelte e i comportamenti dei collaboratori, creando policies più efficaci, promuovendo il benessere dei dipendenti e migliorando le performances complessive.

Nella pratica, questo si traduce in diversi vantaggi.

1. Comprensione e allineamento dei comportamenti

Conoscere i bias e le euristiche cognitive dei collaboratori aiuta a progettare processi di selezione, valutazione e sviluppo più efficaci.

Ad esempio, capire come agiscono le norme sociali (la naturale tendenza delle persone ad adeguarsi a ciò che percepiscono come comportamento prevalente nel proprio gruppo) permette all’HR di incrementare la diffusione di abitudini virtuose o necessarie ad un eventuale percorso di trasformazione organizzativa.

2. Migliore benessere individuale e coinvolgimento

Tecniche come il nudging favoriscono l’adozione di abitudini virtuose da parte dei dipendenti. L’iscrizione automatica a programmi formativi o pensionistici (default nudges) aumenta la partecipazione, semplificando le scelte individuali e promuovendo la crescita professionale e la pianificazione finanziaria.

Allo stesso modo, piccoli interventi, come la condivisione automatizzata di micro‑promemoria via app o e‑mail che ricordano di alzarsi, fare stretching o condurre brevi passeggiate durante la giornata lavorativa contribuiscono a ridurre la fatica mentale e fisica, con ricadute positive su produttività e riduzione dell’assenteismo.

3. Inclusione e diversità

Rimuovere inconsapevolmente i bias cognitivi favorisce una cultura inclusiva: procedure come la selezione blind dei curriculum o la diversificazione dei panel di valutazione possono ridurre stereotipi che intervengono nel processo decisionale.

Inoltre, queste misure ampliano e qualificano il bacino dei candidati, rendono i processi di assunzione più equi e trasparenti e rafforzano la reputazione dell’azienda come datore di lavoro inclusivo.

4. Creatività e collaborazione

Modificare gli elementi dell’architettura fisica e sociale del lavoro può generare dinamiche collaborative.

Ad esempio, disegnare spazi comuni di incontro o implementare routine di collegamento quotidiano tra team può favorire lo scambio informale di idee. Tale effetto può essere ottenuto anche tramite il ricorso a “nudges di socializzazione”: interventi su piccola scala progettati per far incontrare persone che normalmente lavorerebbero a compartimenti stagni, o badge digitali che premiano chi commenta un’idea di un altro team, o ancora la presenza di mini‑challenge cross‑funzionali.

Tali interventi e iniziative, oltre a rafforzare il senso di appartenenza e la fiducia reciproca, possono realmente moltiplicare la circolazione della conoscenza tacita e, di conseguenza, incrementare sia la creatività che la velocità di risoluzione dei problemi a livello organizzativo.

5. Comunicazione più chiara e decisioni semplificate

Gli studi di economia comportamentale mostrano che le persone operano meglio quando l’architettura informativa di riferimento è essenziale e il percorso decisionale è lineare.

Utilizzando questi principi, l’HR può progettare messaggi e processi che riducono il carico cognitivo: moduli con meno campi, interfacce intuitive, feedback immediati sullo stato di una richiesta.

Questa semplificazione aiuta i dipendenti a comprendere rapidamente opzioni e conseguenze, accelera la presa di decisione e diminuisce gli errori operativi, portando a un’adozione più rapida e diffusa delle iniziative HR.

Economia comportamentale e nudging: la “spinta gentile” verso migliori decisioni

Il nudging è uno degli strumenti più conosciuti nell’ambito dell’economia comportamentale. Consiste nel modificare sottilmente l’ambiente decisionale per rendere più probabili le scelte desiderate, senza restringere la libertà di scelta dell’individuo.

Nel loro bestseller Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth and Happiness, Richard Thaler e Cass Sunstein definiscono il nudging come «qualsiasi intervento che modifica l’architettura delle scelte prevedibili senza vietare opzioni o cambiare in modo significativo i loro incentivi economici».

In ambito HR, il nudging può essere usato per guidare i comportamenti dei dipendenti in chiave positiva.

Behavioral Economics e nudging: alcuni esempi di applicazione pratica

Nell’immediato periodo post-pandemico molte imprese hanno affrontato fenomeni di quiet quitting e un incremento di dimissioni legate al fenomeno della great resignation.

In questo contesto il nudging può invertire trend negativi creando condizioni che incentivano la motivazione e il benessere individuale: anche interventi semplici legati al concetto della “spinta gentile” possono contribuire a ravvivare l’engagement dei team e influenzare i comportamenti in chiave positiva.

Ad esempio, micro‑messaggi motivazionali personalizzati inviati via app o intranet che celebrano i traguardi del team, oppure riconoscimenti pubblici in tempo reale (shout‑out su Slack, badge sulla intranet o micro‑bonus digitali) attivano leve di appartenenza, autonomia e gratificazione immediata; questo mix, unito ad altre iniziative di supporto che vanno nella stessa direzione, può riaccendere la motivazione intrinseca e rafforza l’engagement dei team, con ricadute positive e misurabili su morale, collaborazione e produttività.

Il ricorso alle strategie di nudging nell’HR si basano spesso sui principi della psicologia sociale.

Ad esempio, fare leva sulle norme sociali, ovvero sulla naturale propensione ad adeguarsi a ciò che percepiamo come comportamento prevalente nel nostro gruppo di riferimento, può portare a comunicare che la maggioranza dei colleghi ha già completato il corso di formazione obbligatoria.

In questo contesto, la consapevolezza di essere in minoranza induce chi è in ritardo ad allinearsi, accelerando la diffusione del comportamento desiderato.

Per citare un ulteriore esempio di tale tecnica, tra il 2011 e il 2012 il governo del Regno Unito ha ottenuto un aumento del 15% nei pagamenti puntuali delle imposte tra i suoi cittadini, semplicemente comunicando loro che “la maggior parte delle persone che risiedono nella tua zona paga le tasse nei termini previsti”.

Allo stesso modo, default nudges come l’automatizzazione dell’iscrizione a corsi di formazione o piani pensionistici porta a un significativo aumento della partecipazione, riducendo l’inerzia decisionale. Cruciale è anche la chiarezza di comunicazione: semplificare il linguaggio e riorganizzare i processi (ad es. moduli più brevi, call informative quotidiane) aiuta i dipendenti a fare scelte consapevoli. In ogni caso, occorre ricordare che il nudging si differenzia fortemente dalla manipolazione del comportamento: esso allinea politiche e spunti organizzativi alle inclinazioni cognitive naturali degli individui, guidando le scelte in modo trasparente e rispettoso.

La behavioural economics alla prova del change management: misurare i cambiamenti comportamentali con i KBI

L’applicazione dell’economia comportamentale ha acquisito un’importanza progressivamente crescente nel mondo aziendale, in particolare nell’affrontare le sfide della gestione del cambiamento.

Come sappiamo, poiché i mercati evolvono rapidamente e la pressione per innovare si intensifica, le aziende non devono solo adattarsi, ma anche gestire efficacemente tutti gli elementi di un cambiamento divenuto oramai continuo.

Tuttavia, le strategie tradizionali di gestione del cambiamento spesso non riescono ad affrontare le barriere psicologiche e comportamentali che i dipendenti affrontano durante i periodi di cambiamento.

Infatti, tale approccio spesso trascura i fattori cognitivi ed emotivi più profondi che influenzano il comportamento dei dipendenti.

È qui che la behavioural economics offre intuizioni preziose: comprendendo come i bias cognitivi, le emozioni e le pressioni sociali influenzano le decisioni, l’economia comportamentale fornisce un quadro concettuale più aderente alla realtà, fondamentale per progettare interventi di change più efficaci, come abbiamo illustrato nel corso di un recente workshop organizzato da HRI sul tema del Behavioural change management.

L’importanza dell’economia comportamentale nel migliorare la nostra comprensione della gestione del cambiamento risiede nella sua capacità di ancorare le strategie di cambiamento alla ricerca empirica sul comportamento umano, offrendo strumenti essenziali per la trasformazione mirata (e basata su evidenze scientifiche) del comportamento.

Misurare gli effetti della Behavioural Economics: cosa sono i KBI, o Key Behavioural Indicators

L’approccio Behavioural al cambiamento organizzativo può rappresentare una soluzione efficace anche per la definizione di metriche e KPI per la misurazione del successo del change management, che da sempre rappresenta uno dei principali fattori critici dei modelli di change management presenti in letteratura.

Allo scopo di misurare il successo di un processo di change management, l’approccio behavioural suggerisce di includere all’interno dei KPIs tradizionali del change management i cosiddetti Key Behavioural Indicators (KBIs), che rappresentano il cuore dell’approccio behaviural alla gestione del cambiamento organizzativo.

Tali KBIs si focalizzano sul grado in cui i dipendenti adottano, internalizzano e mettono in pratica i nuovi comportamenti oggetto del processo di cambiamento organizzativo. A differenza dei Key Performance Indicators (KPI), i KBI si concentrano sulla misurazione di comportamenti specifici, stabiliti nella fase di preparazione del cambiamento, che corrispondono alla definizione di successo del processo di change.

L’utilizzo dei KBI per misurare gli impatti del change management, in questo senso, consente di evitare di cadere nella trappola delle vanity metrics e delle activity metrics, o di fare esclusivo affidamento sul ROI del change management, focalizzandosi invece sul monitoraggio dei comportamenti ritenuti chiave per la riuscita del processo.

Naturalmente, l’implementazione dei KBI nel change management richiede innanzitutto l’identificazione di tali comportamenti chiave su cui intervenire (ad es. frequenza di meeting interfunzionali, tempo dedicato alla formazione, condivisione di feedback), insieme alle modalità di rilevazione (sondaggi, software di monitoraggio, report periodici).

La behavioural economics in HR: esempi e case studies

Negli ultimi anni, dunque, progressivamente l’economia comportamentale è uscita dai libri di Kahneman e Thaler per entrare stabilmente nelle agende degli HR professionals: interviste specialistiche e portali di settore la descrivono come una delle leve decisive per contrastare fenomeni come quiet quitting e decision fatigue, fornendo agli HR strumenti pratici di choice architecture e nudge design. Non è un caso che associazioni professionali (AIDP) ed ecosistemi di networking (HRC Community) abbiano dedicato workshop e web-meeting a casi concreti in cui i bias cognitivi diventano variabili misurabili e gestibili nei processi di selezione, welfare e change management.

Nel panorama che va definendosi, tre differenti storie spiccano per rigore metodologico e risultati documentati, mostrando come piccoli interventi mirati possano generare impatti misurabili su engagement, performance e cultura organizzativa, offrendo un modello replicabile a tutte le funzioni HR che vogliono passare dalla teoria alla pratica della spinta gentile:

  • Choice Architecture nel recruiting: La collaborazione fra Reverse (headhunter italiano specializzato in profili middle–executive) e la società di consulenza aBetterPlace nacque nel 2021 con un obiettivo preciso: trasformare i recruiter in “architetti delle scelte” capaci di accompagnare i candidati nella scelta relativa ad un eventuale cambio di professione, in maniera tale che essa risulti più lucida e meno affetta da bias. Il percorso di progetto si articolava in tre fasi fondamentali:
  1. Formazione sui bias: workshop esperienziali per imparare a riconoscere status-quo bias, avversione alla perdita ed effetto framing che possono rallentare l’accettazione di nuove offerte da parte dei candidati
  2. Progettazione di un Nudge Swarm: ovvero un set di micro-interventi (check-list di elementi pro-&-contro, esercizi di future visualisation, storytelling di “alumni” che hanno già affrontato il dilemma) integrati nel percorso di selezione
  3. Video-pillole per la reverse academy: brevi clips in cui ogni settimana viene spiegato un potenziale bias e la corrispondente leva comportamentale da usare durante il colloquio

Il beneficio riscontrato, come ha raccontato Reverse, è stato duplice: candidati più lucidi nel proprio processo decisionale e aziende clienti che incontrano persone già motivate al cambiamento, con conseguente riduzione dei rifiuti da parte dei candidati e del time-to-hire.

Una “spinta gentile” per incentivare le pause

Nel corso del 2023, Slack ha condotto un esperimento interno per incoraggiare i dipendenti a prendersi regolarmente delle pause durante l’orario di lavoro.

Nel marzo 2024 il team “Workforce Lab” di Slack ha invitato oltre 200 dipendenti a partecipare a un esperimento di due settimane basato su un semplice nudge: ogni mattina veniva inviato loro un promemoria che ricordava di prendersi almeno una breve pausa (anche solo di 5 minuti) durante la giornata lavorativa.

I partecipanti hanno segnalato in un sondaggio quotidiano la frequenza e il tipo di pause intraprese, permettendo ai ricercatori di misurare l’impatto operativo.

I risultati

  • il numero di persone che effettivamente optava per una vera pausa quotidiana è aumentato del 65%
  • la percezione di poter prendere una pausa è salita dal 38% al 60%.

Parallelamente, altre metriche hanno subito un miglioramento marcato:

  • la produttività percepita è salita del 21%
  • il Work-Life balance del 73%
  • la capacità di gestire lo stress è più che triplicata (+230
  • la soddisfazione complessiva sul lavoro è aumentata del 63%.

Non sorprende che i partecipanti abbiano riportato feedback entusiastici: anche chi non riusciva a fare tutte le pause assegnate dichiarava effetti positivi semplicemente per aver provato a farlo.

Da questa sperimentazione Slack ha tratto diverse lezioni: la normalizzazione delle pause (per esempio con messaggi pubblici dei manager che mostrano di farle) e il supporto continuo sono critici per cambiare la cultura aziendale.

In conclusione, un piccolo nudging sistematico (il semplice invito quotidiano a staccare) si è tradotto in un significativo potenziamento di produttività e benessere per i dipendenti.

Nudging per lo sviluppo manageriale

Dal 2021 la multinazionale americana Kraft Heinz ha adottato un programma di nudging per rafforzare i principi di leadership interni, allineandoli alla cultura organizzativa, e supportare lo sviluppo dei propri manager nell’agire efficacemente il proprio ruolo.

Attraverso brevi consigli personalizzati inviati tramite Teams, l’azienda ha stimolato il verificarsi di azioni concrete dei manager verso i propri collaboratori, come schedulare conversazioni di feedback o per la pianificazione delle carriere.

I risultati

  • l’85% dei manager ha utilizzato i nudges quotidianamente
  • chi interagiva regolarmente con tali nudges veniva valutato dai propri collaboratori come “altamente efficace” molto più spesso di chi non vi prestava attenzione.
  • Al contrario, il 7% dei manager che interagiva scarsamente con essi veniva valutato negativamente dai propri collaboratori 2,5 volte più frequentemente.

In seguito, la diffusione capillare di questi messaggi all’intera popolazione organizzativa ha portato a un aumento medio di 3 punti nei punteggi di engagement registrati tra le funzioni maggiormente attive, dimostrando un chiaro impatto qualitativo e quantitativo sul coinvolgimento dei dipendenti.

Sfruttando uno dei tool più conosciuti dell’ambito della behavioural economics, Kraft Heinz ha personalizzato i propri incentivi comportamentali agganciandoli alle priorità strategiche, integrandoli nel flusso di lavoro e potenziando così le iniziative tradizionali di formazione: un approccio che ha migliorato la pratica manageriale e l’allineamento ai valori aziendali.

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