Negli ultimi anni, le trasformazioni subite dal contesto competitivo globale hanno generato un panorama in cui il cambiamento organizzativo non può più essere affrontato come un evento episodico e discreto.
Dall’operare scelte di discontinuità rispetto ai modelli organizzativi, alle modalità di lavoro o alle soluzioni tecnologiche da utilizzare in vista di maggiore produttività ed efficienza, il cambiamento ha assunto ora la forma di una condizione strutturale, necessario non solo per puntare al miglioramento continuo, ma per la sopravvivenza stessa delle organizzazioni.
Senza voler essere esaustivi, è possibile individuare alcuni fattori chiave che hanno contribuito più di altri a questa evoluzione:
In primis, l’avanzamento tecnologico, caratterizzato da cicli di innovazione sempre più rapidi: le nuove tecnologie emergono a un ritmo senza precedenti, costringendo le aziende ad adattarsi e a innovare continuamente per sopravvivere e rimanere competitive.
Naturalmente, la crescente volatilità dello scenario economico e geopolitico gioca un ruolo altrettanto importante: eventi come recessioni, pandemie e la costante instabilità internazionale hanno dimostrato la fragilità dei modelli di business tradizionali e la necessità di una maggiore flessibilità e resilienza da parte delle organizzazioni.
Infine, per le organizzazioni B2C, l’evoluzione nelle aspettative del cliente finale, che pretende di vivere un’esperienza altamente personalizzata in ogni touchpoint con l’organizzazione, e i cui desiderata sfuggono ormai del tutto alla rigida logica dell’homo economicus, ma sono influenzate da emozioni, valori e fattori sociali che rendono il processo decisionale molto più complesso e meno prevedibile.
CI troviamo insomma, in uno scenario descritto alla perfezione dall’acronimo BANI, coniato dal futurista e ricercatore americano Jamais Cascio per indicare la fragilità dei sistemi politici e sociali moderni (Brittle), la crescente ansia collettiva determinata dall’incertezza (Anxious), unite alla non linearità (Non Linear) e difficoltà di comprensione (Incomprehensible) della realtà in cui viviamo.
Il cambiamento… è “cambiato”?
Pertanto, non senza ragione chi si occupa di change management tende a sottolineare come le lenti tramite cui interpretare il cambiamento si sono evolute, seguendo 4 direttrici principali:
- Da un’idea di cambiamento come momento di discontinuità organizzativa a una prospettiva di cambiamento continuo e iterativo, che procede per sperimentazioni e validazioni di ipotesi: da processo sporadico e isolato a condizione organizzativa permanente, da eccezione a regola
- Da una visione del cambiamento come percorso lineare e pianificato, da uno stato attuale (as is) a uno stato desiderato (to be), a un’idea di cambiamento come processo continuo di adattamento e apprendimento, in cui l’organizzazione evolve costantemente in risposta a nuove condizioni e opportunità, senza un punto di arrivo definitivo
- Da un’idea di processo prevalentemente top-down, a quella di un percorso di co-creazione e co-design con tutti gli stakeholder coinvolti, per promuovere l’ownership collettiva e accelerare l’apprendimento organizzativo sul cambiamento, trasformandolo da evento imposto a processo condiviso e partecipato
- Da un focus sulla capacità di progettare il cambiamento per “mantenere la rotta” tracciata dall’organizzazione (o cambiarla radicalmente), ad un focus sulla capacità di preparare l’organizzazione per il cambiamento continuo.
In definitiva, si è passati da una prospettiva di cambiamento organizzativo come momento di discontinuità più o meno radicale, a un nuovo punto di vista sul cambiamento, da concepire sempre di più come fonte di vantaggio competitivo sostenibile.
In questo contesto di cambiamento continuo, la sfida del change management assume dunque una nuova identità: non si tratta più di gestire singoli eventi di cambiamento, ma di creare e sostenere una cultura aziendale che abbracci il cambiamento come parte integrante del proprio DNA organizzativo.
Questo approccio, anziché resistere al cambiamento o considerarlo un evento sporadico, si concentra sulla capacità di adattarsi rapidamente alle nuove sfide, alle richieste del mercato e alle innovazioni tecnologiche, promuovendo una cultura aziendale flessibile e orientata al miglioramento continuo, per incrementare la propria change attitude e antifragilità.
Emerge a questo punto una domanda fondamentale: i modelli di change management elaborati dalla letteratura organizzativa e nell’ambito della consulenza possono ancora dirsi attrezzati per accompagnare le organizzazioni ad affrontare il cambiamento nella sua nuova veste, garantendo gli strumenti utili ad affrontare il cambiamento continuo?
A questo proposito, è utile analizzare due tra i modelli di change managment più affermati e diffusi in letteratura, per valutarne l’efficacia nel rispondere alle sfide del nuovo contesto di cambiamento continuo: il modello del Lean Change Management e il modello ADKAR di Prosci.
Il modello del Lean change management
Le radici del Lean Change Management affondano nel Toyota Production System (TPS), sviluppato in Giappone dopo la seconda guerra mondiale. La filosofia centrale di questo modello risiede nel suo processo iterativo, adattivo e basato sul feedback, che lo distingue dai modelli tradizionali di gestione del cambiamento.
A differenza di questi ultimi, l’approccio Lean valorizza infatti la collaborazione e il miglioramento ricorsivo per gestire efficacemente il cambiamento.
Piuttosto che implementare cambiamenti su larga scala in un’unica soluzione, il Lean Change Management promuove modifiche di scala inferiore, in maniera iterativa.
Questo consente alle organizzazioni di testare i cambiamenti, apprendere da essi e apportare le necessarie correzioni in modo più efficiente.
Nella recente formulazione del consulente americano Jason Little, il modello si compone di tre fasi principali: Insight, Opzioni ed Esperimenti.
Nel dettaglio:
- Insight: si tratta di una fase dedicata alla comprensione del contesto e dello stato attuale dell’organizzazione, utile a individuare eventuali ostacoli e aspetti critici che possono limitare l’agilità dell’organizzazione e la capacità di perseguire il cambiamento desiderato. A tal fine, esistono diversi strumenti o pratiche che possono essere utilizzati, tra i quali Information Radiators (come la Kanban Board), strumenti di Force Field Analysis, e strumenti di assessments come l’OCAI Cultural Assessment
- Opzioni: si tratta di una fase generativa: per ogni insight vengono identificate diverse opzioni per indirizzare gli aspetti critici evidenziati nella fase precedente. Tra le opzioni generate vengono prioritizzate le soluzioni ritenute più efficaci, utilizzando i change canvas come strumenti di supporto. Inoltre, le opzioni vengono vagliate in base ai potenziali benefici e alla facilità-difficoltà di implementazione organizzativa
- Esperimenti: Dopo che sono state generate diverse soluzioni possibili, i team di progetto lavorano insieme per creare degli esperimenti su piccoli gruppi-pilota, per testarne l’efficacia. Il principio alla base è di monitorare i risultati degli esperimenti, imparando da tali esiti per determinare i passi successivi.
Infine, in base agli esiti occorre decidere se adottare o abbandonare il cambiamento oggetto dell’esperimento. L’adozione comporta l’integrazione del cambiamento nei processi aziendali, e il ricorso a formazione e supporto continuo per favorirne l’adozione diffusa.
Il modello ADKAR di Prosci
Il modello ADKAR di Prosci è un modello di gestione del cambiamento influente e ampiamente riconosciuto in letteratura, che enfatizza l’importanza del cambiamento individuale all’interno del processo di cambiamento organizzativo. Sviluppato da Prosci, società leader nell’elaborazione di soluzioni per la gestione del cambiamento, il modello ADKAR fornisce un framework strutturato per aiutare gli individui a gestire con successo il cambiamento, attraverso 5 step:
- Awareness (Consapevolezza), implica la creazione di una consapevolezza sulla necessità del cambiamento e sulle motivazioni che lo sostengono.
- Desire (Desiderio), che mira a sollecitare negli individui un impegno personale e un atteggiamento positivo nei confronti del cambiamento.
- Il terzo elemento è Knowledge (Conoscenza), che si concentra sull’equipaggiare gli individui con le informazioni e le competenze necessarie per affrontare il cambiamento.
- Il quarto elemento, Ability (Capacità), enfatizza lo sviluppo delle competenze pratiche necessarie per implementare il cambiamento in modo efficace. Questo passaggio prevede il supporto diretto tramite coaching e l’opportunità di mettere in pratica il cambiamento.
- L’ultimo elemento è Reinforcement (Rinforzo), che mira a consolidare il cambiamento attraverso un supporto continuo. Ciò include il riconoscimento e la valorizzazione degli sforzi compiuti dagli individui fino a questo momento, la celebrazione dei successi e il ricorso a programmi di aggiornamento continuo.
Lean e ADKAR alla prova del cambiamento continuo: quali limiti?
Sebbene entrambi i modelli descritti fin qui forniscano strumenti concettuali validi per la gestione del cambiamento, la loro capacità di rappresentare un punto di riferimento per le organizzazioni nella costruzione di un nuovo approccio al cambiamento organizzativo è messa in discussione da tre limiti fondamentali, che è bene analizzare nel dettaglio:
1) Mancanza di considerazione del contesto come fattore determinante per la progettazione del cambiamento
2) Limitata sostenibilità del cambiamento sul lungo periodo
3) Semplificazione dei fattori umani, psicologici e sociali del cambiamento.
Mancanza di considerazione del contesto
Un limite significativo dei modelli di change management tradizionali è la loro tendenza a trascurare l’importanza del contesto organizzativo in cui vengono applicati.
Naturalmente, quando si parla di contesto organizzativo ci si riferisce innanzitutto all’analisi della cultura aziendale, la cui mancata considerazione nelle fasi preliminari di gestione del cambiamento può pregiudicare fortemente l’efficacia dell’intera iniziativa.
Essa, infatti, agisce come una lente attraverso la quale ogni iniziativa di cambiamento viene vista e valutata dai membri dell’organizzazione.
Rispetto a questa limitazione, non fanno eccezione i modelli del Lean Change Management e il modello ADKAR. Quest’ultimo, in particolare, tende a concentrarsi esclusivamente sulla dimensione individuale, operando un’eccessiva semplificazione e non considerando appieno l’influenza del contesto organizzativo, della cultura aziendale e delle dinamiche di potere sul processo di cambiamento e sullo stesso percorso di transizione dell’individuo.
Anche l’efficacia del modello del Lean Change Management può risentire fortemente della variabile del contesto organizzativo. L’applicazione proficua di tale modello per un processo di gestione del cambiamento richiede infatti un cambiamento di mindset significativo orientato alla flessibilità, adattabilità e miglioramento continuo, che può essere difficile da ottenere in organizzazioni con strutture rigide o caratterizzate da uno stile manageriale direttivo o fortemente gerarchico.
Ad esempio, un’azienda con un approccio di gestione top-down potrebbe avere difficoltà ad abbracciare la natura collaborativa e iterativa del Lean Change Management, incontrando resistenze o implementando il modello in modo inefficace.
L’importanza fondamentale dell’allineamento delle pratiche di change management alla cultura organizzativa emerge anche dalla ricerca del 2023 sulle Best Practices in Change Management condotta annualmente di Prosci, che ha coinvolto circa 2700 partecipanti provenienti da più di 38 settori di attività. Il 59% dei rispondenti, infatti, ha attribuito la massima importanza alla consapevolezza della cultura organizzativa nella progettazione di un’iniziativa di cambiamento.
Importanza della cultural awareness nella definizione dell’itinerario di cambiamento
(Prosci. 2023. Best Practices in Change Management: 12th Edition Executive Summary. Cfr. anche https://www.prosci.com/blog/why-change-management-fails)
Limitata sostenibilità del cambiamento sul lungo periodo
Un altro limite importante dei modelli tradizionali di cambiamento organizzativo è la loro tendenza a concentrarsi sulla fase di implementazione del cambiamento, con scarsa attenzione alla sua sostenibilità e radicamento nel lungo periodo.
In letteratura si parla a questo proposito di fase di mantenimento: il suo obiettivo è garantire che le trasformazioni importanti vengano adottate e utilizzate, diventino il modo di operare accettato all’interno dell’organizzazione e si radichino nella cultura aziendale.
Anche quando è effettivamente prevista dai modelli di gestione del cambiamento, la fase di mantenimento fornisce accorgimenti generici o astratti, che si limitano a sostenere la necessità di rinforzare i cambiamenti introdotti, senza interrogarsi adeguatamente sulle modalità proprie in cui tale rinforzo debba avvenire per funzionare efficacemente in un sistema sociale complesso come quello organizzativo.
È il caso ad esempio del modello ADKAR analizzato in precedenza, la cui ultima fase (deputata al sostegno del cambiamento) si limita a prescrivere il riconoscimento dei traguardi raggiunti e l’eventuale introduzione di correttivi tempestivi per le difficoltà incontrate dai destinatari del cambiamento, senza suggerire la necessità di un monitoraggio a lungo termine relativo ai livelli di adozione del cambiamento.
Rispetto al modello del Lean Change Management, invece, appare evidente come il suo processo iterativo possa portare destinatari del cambiamento e stakeholder a sviluppare forme di “change fatigue“, riducendo il coinvolgimento nell’iniziativa e rendendo più complicata la sostenibilità del cambiamento sul lungo periodo.
In generale, il corretto svolgimento di una fase di mantenimento è reso più arduo dalla tendenza dei leader organizzativi che agiscono da sponsor del cambiamento a spostare l’attenzione su nuove iniziative prima che gli sforzi di mantenimento possano dare i propri risultati.
Venendo assorbiti da nuove priorità strategiche, costoro possono non attribuire la dovuta centralità ed importanza alla fase di mantenimento, dando per scontato che il consolidamento avvenga spontaneamente o che non sia necessario. Tuttavia, i dati dimostrano il contrario.
Infatti, la medesima ricerca di Prosci del 2023 sulle Best Practices del Change Management mostra come l’81% delle organizzazioni che hanno dichiarato di aver previsto una fase di mantenimento e rinforzo del cambiamento ha raggiunto o superato gli obiettivi del progetto di change, mentre solo il 15% di coloro che non avevano pianificato tale fase ha ottenuto gli stessi risultati.
Impatto della pianificazione della fase di mantenimento sul raggiungimento degli obiettivi del change management.
(In Prosci. 2023. Best Practices in Change Management: 12th Edition Executive Summary.. Cfr. anche https://www.prosci.com/blog/sustainment-in-change-management)
Semplificazione dei fattori umani, psicologici e sociali del cambiamento
Occorre riconoscere come diversi tra i modelli tradizionali di cambiamento organizzativo tengano in considerazione l’influenza dei fattori umani e psicologici sull’esito del cambiamento organizzativo.
La quasi totalità di essi, tuttavia, presenta un limite fondamentale: tende infatti a concepire l’individuo come isolato e separato rispetto al sistema-organizzazione di cui fa parte, con il risultato di escludere dal quadro concettuale tutte le dinamiche che agiscono sull’individuo in quanto parte di un gruppo sociale, ben lontano dall’essere una semplice somma di individui isolati, come è appunto un’organizzazione.
Infatti, molte soluzioni si limitano a seguire la strada percorsa da modelli come ADKAR o il modello di transizione di Bridges, che introducono all’interno del processo accorgimenti che garantiscono una maggiore considerazione degli aspetti umani e psicologici connessi al cambiamento, e in particolare alla resistenza al cambiamento, senza includere però una riflessione più approfondita sulle dinamiche tipiche dei gruppi sociali e la loro ricaduta sulla gestione del cambiamento.
Rispetto a questi accorgimenti, la disciplina di riferimento è la psicologia organizzativa, che può contribuire a spiegare le ragioni per cui le persone resistono al cambiamento, incorporando nei modelli di change management strategie per costruire fiducia e trasparenza, affrontare eventuali ansie e preoccupazioni collegate al cambiamento, o favorire il coinvolgimento dei dipendenti con iniziative di formazione e supporto personalizzate.
Che fare? Nuove discipline per un nuovo approccio al cambiamento
Considerate queste limitazioni, appare difficile poter assegnare a questi modelli di change management la patente di idoneità alla gestione del cambiamento continuo. Tuttavia, la soluzione che stiamo cercando non risiede forse nel totale abbandono dei modelli tradizionali, quanto piuttosto nell’innesto, all’interno di questi ultimi, di strumenti concettuali provenienti da altre discipline, che possano aiutare a colmare i tre limiti fondamentali che abbiamo analizzato, rendendo tali modelli più attrezzati ad affrontare l’attuale dinamica del cambiamento organizzativo.
In questo senso, la psicologia organizzativa citata in precedenza è solo una tra diverse discipline che possono prestare il loro contributo a quest’opera di adattamento dei modelli di change management contemporanei.
Un’ulteriore disciplina che può garantire forse maggiore efficacia nell’affrontare e superare i limiti dei modelli di change management evidenziati in precedenza è senza dubbio la Behavioural Economics.
L’economia comportamentale, infatti, può fornire strumenti preziosi per la gestione del cambiamento, in virtù della sua capacità di ancorare le strategie di cambiamento alla ricerca empirica sul comportamento umano, offrendo strumenti essenziali per la trasformazione mirata (e basata su evidenze scientifiche) del nostro comportamento.
Comprendendo come i bias cognitivi, le emozioni e le pressioni sociali influenzano le decisioni, questa disciplina fornisce un quadro concettuale più aderente alla realtà delle organizzazioni, fondamentale per progettare iniziative di cambiamento più efficaci.
Rispetto al primo limite evidenziato, la mancanza di considerazione del contesto, l’apparato concettuale della Behavioural Economics può aiutare a ottenere una comprensione più sfumata e granulare del contesto organizzativo, analizzando la cultura aziendale, le dinamiche di gruppo interne all’organizzazione e le motivazioni individuali, riconoscendo che ogni scelta relativa al cambiamento è profondamente condizionata dall’ambiente in cui avviene.
Per fare ciò, si serve di tecniche e strumenti codificati, come l’analisi delle reti informali (Organizational Network Analysis), l’analisi di BIAS come il BIAS di Status Quo, o il ricorso al Modello COM (capacità/opportunità/motivazione).
La capacità di mantenere e rinforzare il cambiamento sul lungo periodo viene invece raggiunta soprattutto attraverso l’attenzione per l’allineamento consapevole del cambiamento ai valori della cultura aziendale.
Tale attenzione consente di modificare la percezione del cambiamento, da imposizione ad aspirazione collettiva, tramite un nesso diretto con i valori fondamentali dell’organizzazione, che va ad orientare anche la scelta delle attività da intraprendere, ovvero, del contenuto stesso delle fasi del progetto.
Inoltre, i valori fungono da guida anche dopo la fine del progetto, e amplificano un senso di coesione e identità organizzativa. Ciò garantisce la sostenibilità nel tempo del cambiamento anche dopo la conclusione formale del progetto di change management.
L’apparato concettuale della behavioural economics ha in sé diversi strumenti che possono facilitare la permanenza del cambiamento sul lungo periodo: tra di essi vi sono certamente il cosiddetto Goal Gradient Effect, i meccanismi di incentivazione e di reciprocità, e i cosiddetti commitment devices.
Infine, appare evidente come, a differenza dei modelli di change management che abbiamo illustrato, che tendono a sradicare l’individuo dal contesto organizzativo di riferimento, considerandolo isolatamente, l’economia comportamentale assicura una considerazione più ricca delle pressioni e dinamiche di gruppo come dimensioni in grado di influenzare profondamente il comportamento individuale: se osservati attraverso le lenti della behavioural economics, gli individui non prendono mai decisioni in isolamento, ma sono influenzati dalle interazioni con gli altri, dalle norme del gruppo e dal contesto sociale in cui si trovano.
Conclusioni
Il cambiamento organizzativo è ormai diventato una condizione strutturale della vita organizzativa: non più un traguardo da raggiungere, ma una condizione permanente da navigare. In questo scenario, per supportare le organizzazioni nella costruzione di una vera e propria change attitude, gli strumenti a loro disposizione devono necessariamente evolversi, integrando i modelli esistenti con approcci provenienti da nuove discipline.
Tra queste, la Behavioural Economics si rivela particolarmente efficace, offrendo un approccio basato sull’evidenza scientifica del comportamento umano.
Come si è visto, l’apporto di questa disciplina permette di superare i principali limiti dei modelli classici di change management, rispecchiando maggiormente le complessità dell’ambiente organizzativo.
In particolare, quest’ultima fornisce chiavi di lettura più realistiche sulle sue dinamiche interne, e permette di agire con maggiore incisività sui comportamenti chiave, accelerando e consolidando il cambiamento sul lungo periodo.
Tale impatto è reso possibile dal riconoscimento dell’influenza del contesto sull’esito del processo di cambiamento, dalla valorizzazione del ruolo dei bias cognitivi e delle norme sociali, e dalla promozione di strategie che ancorano il cambiamento ai valori e alle motivazioni profonde delle persone.
In definitiva, adottare una simile prospettiva non significa abbandonare i modelli esistenti di cambiamento organizzativo, ma piuttosto potenziarli con strumenti capaci di abbracciare la portata della sfida che le organizzazioni si trovano ad affrontare, per arrivare a concepire il continous change sotto una luce diversa: da semplice ostacolo da affrontare a leva strategica per il vantaggio competitivo delle organizzazioni.